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Depressione: alla ricerca della felicità

Le prime ricerche sul tema della felicità sono state condotte da Ippocrate, un medico dell’antica Grecia considerato il padre della medicina. Fu il primo a parlare di depressione in termini medico-psicologici attorno al 430 a.C. Egli usava la parola melanconia per indicare quella condizione associata a sintomi quali rifiuto del cibo, sconforto, insonnia e irrequietezza. Ippocrate intuì che la melanconia fosse una manifestazione psicologica di un sottostante disturbo biologico ed in particolare l’effetto di un eccesso di bile nera e muco nel cervello. 

Aristotele introdusse invece il concetto di “predisposizione” alla melanconia ipotizzando che non tutti i soggetti fossero predisposti a produrre bile nera in eccesso ma solo alcuni.

Durante il medioevo invece si attribuì la causa di questa malattia mentale alla possessione del diavolo, a forze magiche o alla punizione divina per i peccati commessi.  

E alla fine del XIX secolo, con Kraepelin che viene formulata una prima accurata descrizione della depressione come disturbo psichico distinta da altre forme di malattia mentale come la demenza. Nel 1911 Karl Abraham diede una spiegazione di natura psicoanalitica alla depressione chiamando in causa l’inconscio e in particolare il senso di colpa. Anche gli studi di Freud sul tema diedero un importante contribuito al concetto di depressione come lo intendiamo oggi.

Sigmund Freud iniziò a curare molte persone depresse accorgendosi che l’elemento centrale per la cura era la sua capacità di ascolto. In quegli anni la psicoterapia tendeva però a concentrarsi sulla “diminuzione dei sintomi depressivi”. Un ulteriore passo avanti avvenne verso la metà degli anni '70, quando Martin Seligman associò la depressione al concetto di “impotenza appresa”. Da qui prese il via il filone della psicologia positiva, ovvero di nuove forme di psicoterapia centrate sull’apprendimento dell”ottimismo e sulla rielaborazione dei processi di pensiero da negativi e  disfunzionali a positivi.

Da allora, gli psicoterapeuti si sono concentrati sempre di più sulla felicità come obiettivo terapeutico, ovvero come direzione da dare al trattamento.

Uno studio curioso sulla felicità è in atto da più di 70 anni presso l’Università di Harvard. Tale ricerca a lungo termine ha visto protagonisti 268 studenti che, durante il corso dell’esperimento sono invecchiati e deceduti.

Da questo studio sono emerse 5 considerazioni su come le persone possono costruire e mantenere la propria felicità.

Le persone felici e quindi più resistenti o immuni alle crisi depressive possiedono o imparano a sviluppare le seguenti abilità: 

 

  • Assecondano bisogni e necessità personali: anziché lamentarsi di ciò che a loro manca e della loro condizione si attivano per procurarsi quello che può aiutarle a stare bene. Sono attive nella società, nel volontariato. Cercano di migliorare la propria ed altrui condizione di vita senza darsi per vinte. Non accusano gli altri ma si responsabilizzano e si attivano per crescere e migliorare il proprio benessere sia fisico sia spirituale. 
  • Hanno un sano senso dell’umorismo: usano l’ironia anche verso se stesse e non si prendono troppo sul serio. SI procurano momenti di leggerezza e spensieratezza. Sanno distinguere le occasioni in cui mostrarsi in modo serio da quelle in cui lasciarsi andare al divertimento ed al gioco.
  • Si relazionano con gli altri: le persone isolare tendono ad essere più infelici rispetto a quelle che condividono esperienze e progetti con altri. Ricercano occasioni di incontro senza rifugiarsi nei social network come unico mezzo di interazione umana. Fanno parte di gruppi sportivi, culturali o di volontariato. Aumentare il numero di amicizie aumenta il livello di nutrimento psichico.
  • Danno spazio alle occasioni di divertimento: non si focalizzano solo su doveri, responsabilità ma si prendono del tempo per coltivare le proprie passioni (ballo, canto, lettura, arte, sport...) e quindi arricchire la propria psiche di immagini, ricordi ed esperienze gratificanti.
  • Si prendono cura del proprio corpo: si dedicano al movimento svolgendo una blanda attività fisica con costanza. Si è riscontrato che una passeggiata di 10 minuti al giorno può aumentare il livello di benessere psicologico e un miglior stato d’animo di circa il 20-30%. 20 minuti di esercizio moderato, come ad esempio una passeggiata a passo sostenuto, con una frequenza di quattro o sei volte alla settimana ha un impatto positivo sull’umore. Si è riscontrato che gli effetti a lungo termine dell’attività fisica sono significativi tanto quanto l’assunzione di un antidepressivo.

 

In sintesi, ciò che emerge da questo studio è che la felicità è il prodotto di un atteggiamento positivo, Ha a che fare con il mettere da parte le preoccupazioni per fare posto a piccoli e frequenti momenti di leggerezza, di divertimento, di interazione con altre persone. Sono le occasioni di interazione sociale, gli hobby e il sapersi ritagliarsi momenti per se che, alleggerendo la mente e nutrendo l’anima, hanno un impatto positivo da un punto di vista emotivo. Si tratta di piccole attività che spesso vengono sottovalutate a causa dei ritmi frettolosi della vita odierna piena di incombenze, scadenze e problematiche ma che in realtà sono tanto preziose per il buon funzionamento psichico.

 

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Autore: Dott. Maurizio Sgambati - Psicologo Psicoterapeuta. © Riproduzione vietata.