Psicologia, Promesse Facili e Relazioni di Cura: Una Riflessione Necessaria

Negli ultimi anni, il bisogno di salute mentale è cresciuto in modo esponenziale. Ansia, depressione, senso di vuoto, difficoltà relazionali: sempre più persone cercano risposte, conforto, strumenti per affrontare il proprio malessere. E questo è un segnale positivo. Significa che il tabù sta cedendo il passo alla consapevolezza, che la sofferenza psichica non viene più ignorata o nascosta, ma riconosciuta come parte della condizione umana.
Parallelamente, però, si è assistito a un’esplosione di offerte psicologiche online. Piattaforme, profili social, consulenze a distanza: il mondo digitale ha reso accessibile ciò che prima sembrava riservato a pochi. Ma questa democratizzazione dell’aiuto psicologico porta con sé anche dei rischi. Il più insidioso è quello di incappare in figure non adeguatamente formate a trattare disagi importanti che potrebbero essere latenti e non visibili ad un occhio attento.
Coach, Counselor, motivatori che spesso propongono interventi rapidi, tecniche di impatto, soluzioni immediate non avendo l'adeguata preparazione per cogliere rischi di scompenso in persone apparentemente ben strutturate. Molti di questi professionisti, pur animati da buone intenzioni, si muovono in territori delicati senza una preparazione clinica solida. Già dalla prima seduta, applicano strumenti suggestivi, visualizzazioni potenti, linguaggi seduttivi che promettono a cambiamento. Il cliente, spesso vulnerabile, riceve l'impressione di avere trovato finalmente "la chiave", di poter risolvere tutto in poche mosse, il consiglio giusto, la strada già tracciata. Ciò che sembra efficace nell'immediato può rivelarsi fragile nel tempo.
La psicologia clinica, al contrario, si fonda sull'etica della gradualità. Lo psicologo non impone tecniche, ma costruisce una relazione. Misura le parole, ascoltale, osserva, tende. L'intervento non è mai invasivo, ma calibrato. E soprattutto, si svolge all'interno di un processo di fiducia: uno spazio sicuro dove il paziente può portare se stesso, senza maschere né pressioni.
La relazione terapeutica non è un mezzo per "aggiustare" la persona, ma uno strumento di cura in sé. E lì che si riparano le ferite relazionali, che si ristrutturano gli schemi disfunzionali, che si impara a stare con le proprie emozioni. Non c'è nulla di mirabolante, ma tutto è profondamente trasformativo.
Questo approccio è sostenuto da decenni di ricerca Carl Rogers, fondatore la terapia centrata sul cliente, ha dimostrato che le condizioni facilitanti - empatia, congruenza, accettazione incondizionata - sono più predittive del cambiamento terapeutico rispetto a qualsiasi tecnica specifica (Rogers, 1957).
Più recentemente, le ricerche di Norcross e Wampold (2011) hanno confermato che la qualità della relazione terapeutica è il fattore più potente nel determinare l'esito della psicoterapia, indipendentemente dall'approccio teorico utilizzato.
Inoltre, il modello della Common factor theory (Lambert and Barley, 2001) evidenza come il 30% del cambiamento terapeutico si attribuibile alla relazione, mentre solo il 15% dipende dalle tecniche specifiche. Questo non significa che le tecniche siano inutili, ma che senza una base relazionale solida, rischiano di diventare strumenti vuoti o persino dannosi.
In un'epoca in cui tutto deve essere veloce, performanti, risolutivo, la psicologia ci ricorda che il cambiamento è autentico richiede tempo, presenza, profondità. E che la vera cura non sta nel "fare qualcosa" ma nel "essere con".

Dr. Maurizio Sgambati
Psicologo a Pordenone