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Il primo impatto con lo psicologo

Stare male psicologicamente non significa essere matti, andare fuori di testa, ma implica presentare tutta una serie di malesseri, non sempre facilmente riconoscibili, che fanno soffrire più di una malattia fisica.

Stare male psicologicamente significa essere molto tristi, così tristi da non trovare conforto in nulla.

Significa avere dei pensieri fissi che si ostinano a stare nella nostra mente e noi non sappiamo come mandarli via.

Significa avere paura di qualcosa che in fin dei conti sappiamo essere innocuo.

Significa avere dei comportamenti che ci fanno sentire un po’ diversi da chi consideriamo essere nella norma (ovviamente, se si parte dal presupposto che esistano persone classificabili come “normali”!).

La sofferenza psicologica ci provoca un disagio interno che il più delle volte non viene percepito da chi ci è vicino.

Abbiamo paura che gli altri si accorgano che ci sentiamo diversi, e questo ci provocherebbe imbarazzo.

Così, possiamo diventare molto abili a nascondere le nostre paure, ad inventare scuse per non uscire, a prenderci in giro dicendo “non sto bene, ma non è niente…”

Purtroppo, le persone non sempre sono attente alla loro salute psicologica come lo sono alla loro salute fisica.

Esiste ancora presso molti il rifiuto dell’esperto in salute psichica, considerato, per scarsa conoscenza della materia, il medico dei matti.

Quando si sta male psicologicamente, non sempre è necessario ricorrere all’aiuto di un esperto.

Il più delle volte è considerato sano soffrire dal punto di vista psicologico, pensiamo a quanto si sta male per un lutto, un licenziamento, allo spavento per un incidente…

È importante sapere distinguere quando la sofferenza psicologica è sana, come negli esempi sopra riportati, passeggera, come in un periodo di forte stress, da quando è indispensabile cercare un supporto.

Qualunque malessere psicologico deve avere una durata limitata nel tempo.

Se i nostri sintomi persistono dopo mesi, è un chiaro segno che non passerà prima o poi, ma il rischio è quello della cronicizzazione, ovvero di convivere per sempre col nostro disagio.

Un esempio può essere quello dei disturbi d’ansia, che si caratterizzano per la comparsa di alcuni sintomi fisici, quali palpitazioni, tensione muscolare, giramenti di testa, accompagnati da preoccupazioni.

Inizialmente è difficile capire cosa sta succedendo, in un secondo tempo ci si convince che prima o poi passerà tutto (ma quando?), e intanto i sintomi compromettono sempre più la nostra quotidianità…

La stessa cosa può accadere per una depressione: una tristezza sempre più pressante ci impedisce di fare qualunque cosa, ma questa non passerà se non curata.

Altro criterio per rivolgersi ad un esperto è quando il fai da te non funziona.

Se abbiamo improvvisato rimedi caserecci, se abbiamo provato qualche farmaco prescritto dal medico in gran segreto, e nulla accade, meglio rivolgersi ad una persona competente.

Avere provato cure non adatte può far entrare in una sorta di circolo vizioso, in cui la persona si convince che non potrà mai guarire perché ha già fatto di tutto (almeno, dal suo punto di vista).

È bene ricordarsi che il “professionista della mente” è un esperto che ha seguito uno specifico training di formazione per apprendere le cure adeguate per i mali psicologici le quali si differiscono di molto rispetto a quelle efficaci per i malesseri strettamente fisici (non dimentichiamo inoltre, che se la mente soffre, le conseguenze si ripercuotono anche sul corpo).

Andare dallo psicologo, dallo psicoterapeuta, non vuol dire essere “matti”, o “diversi”, ma essere responsabili, prendersi cura della propria salute nel senso più ampio, significa migliorare la propria qualità di vita.

 

E’ mia abitudine fissare gli appuntamenti per eventuali primi colloqui solo ed esclusivamente per telefono e direttamente con l’interessato (fatta eccezione per i minorenni).

Dando parecchia importanza già alla prima richiesta di aiuto, ritengo fondamentale che essa venga fatta direttamente da chi ha bisogno del colloquio e non da terzi per diversi motivi:

Spesso chi dovrebbe fare il colloquio non è a conoscenza delle intenzioni di chi chiama il terapeuta al suo posto che, pur agendo in buona fede, cerca di porre l’amico o il parente di fronte al fatto compiuto rischiando di creare solo rabbia e frustrazione.

Chi chiama per un’altra persona cerca di sostituirsi ad essa, togliendole ogni responsabilità e possibilità di confrontarsi e informarsi sui colloqui.

Quando è un terzo a chiamare, capita che accompagni l’interessato con un inganno nello studio del terapeuta così da rischiare di inficiarne fin dall’inizio il suo lavoro di aiuto.

Fin dalla prima chiamata, sia paziente che terapeuta, possono avere importanti informazioni l’uno dell’altro, quindi meglio non contaminare il colloquio telefonico tramite terzi. A volte è la terza persona che avrebbe bisogno di un colloquio ma non avendo il coraggio di richiederlo per se cerca di farlo per altri.

Chi chiede ad una terza persona di chiamare al posto suo potrebbe essere scarsamente motivato a presentarsi al colloquio e farlo solo per fare un favore ad altri e non per se stesso.

La relazione terapeutica inizia fin dalla richiesta dell’appuntamento, è meglio quindi inquinarla il meno possibile.

E’ per questi motivi che credo che la mia abitudine sia un vantaggio per il paziente che ha la possibilità di avere un ruolo attivo fin dalla prima richiesta di aiuto e per me che mi trovo a capire tante cose già a partire dalla chiamata.

 

Il primo colloquio ha come obiettivo principale la conoscenza reciproca: psicologo e paziente si scambiano inizialmente alcune informazioni relative alla conoscenza personale e alle problematiche principali che hanno motivato il paziente a richiedere la consulenza.

L’obiettivo è quello di individuare con chiarezza la richiesta del paziente (analisi delle domanda) per poter indicare adeguati percorsi attraverso i quali sia possibile affrontare le difficoltà individuate. Concretamente il paziente illustrerà allo psicologo quali sono le problematiche per le quali ha richiesto la consulenza, mentre il professionista procederà attraverso domande con l’obiettivo di effettuare una prima anamnesi, ossia una raccolta di informazioni utili ad individuare le aree problematiche, i contesti nei quali si manifestano, le risorse di cui il paziente dispone e la sua motivazione ad intraprendere un percorso di terapia.

Lo psicologo, inoltre alcune informazioni relative al setting, alle sue personali competenze professionali e al suo approccio terapeutico, rendendosi disponibile ad accogliere eventuali richieste specifiche, domande, curiosità circa le modalità della consulenza e la relazione terapeutica. Lo psicologo informa inoltre il paziente sulle tariffe relative al primo colloquio.

Quando si va dallo psicologo, cosa succede?  Cerchiamo di chiarire come opera uno psicologo e perché potrebbe aver senso chiedere un suo aiuto. Una ricerca ha confermato che l’80% di chi inizia una psicoterapia per i problemi che limitano la sua esistenza, trova giovamento e sta meglio rispetto a chi non lo fa e che i cambiamenti ottenuti durano nel tempo: fa bene andare dallo psicologo.

 

Noi psicologi siamo formati, anche tramite la scuola di specializzazione a fornire un supporto e a proporre una nuova visione di quelle difficoltà che giungono ad essere insopportabile e senza apparente soluzione.  Ecco perchè in questi casi, alla fine si decide di chiamare il numero di uno psicologo e prendere un appuntamento. 

 

Accade esattamente quello che accade andando da qualsiasi altro professionista della salute, sia esso il nostro medico oppure il nostro dentista. I professionisti fanno sempre le medesime cose e cioè: fanno una visita (lo psicologo ascolta il nostro primo discorso) e si fanno un’idea di cosa possiamo avere.

 

Dobbiamo raccontare la nostra vita ma …da quando? Da quando siamo nati oppure dal primo evento significativo che ancora ricordiamo, oppure semplicemente dal primo ricordo che abbiamo? Non c’è una scaletta, venite e raccontate ciò che vi sta più a cuore, oppure ciò che vi toglie il sonno, insomma, se avete un problema specifico, si inizia da li se invece c’è solo un malessere diffuso e ancora mal delineato si può cominciare anche raccontando un sogno e da li partire. Da qualsiasi punto si parte, si arriva sempre al centro … del problema. Provate quindi a raccontare il problema.

 

Quando andiamo dal dentista perchè ci fa male un dente, che facciamo … glielo facciamo indovinare? Certamente no, indichiamo il dente dolorante. Da noi, psicologi, accade la stessa cosa. Non abbiamo la palla di vetro, abbiamo bisogno di sapere esattamente come il dentista, quindi, apritevi senza remore. Se invece pensate che, anche se non abbiamo la palla di vetro, abbiamo invece strumenti misteriosi e siamo in grado di comprendere tutto semplicemente guardandovi negli occhi, oppure vedendo come vi accomodate, oppure come parlate, sappiate che questo non è vero.

 

Andando dallo psicologo sappiate che si fa una sola cosa: si parla: non si fa altro. Potrebbero servire più sedute prima di comprendere appieno il nocciolo del problema, mentre spesso (nel mio caso quasi sempre) alla fine del primo incontro è possibile che il terapeuta vi esponga delle ipotesi sul problema e vi proponga come eventualmente proseguire.

Spesso ci si domanda è: quanto tempo serve per definire i confini del problema?

Questa domanda ha una sola risposta e cioè: dipende: da cosa? da molti fattori legati a noi stessi, al nostro problema e al terapista cui ci rivolgiamo.

 

E poi cosa succede? Poi, si decide come e se proseguire. Una volta definiti i confini del problema il terapeuta suggerirà come proseguire. Contrariamente dal medico dove si va una prima volta e poi di tanto in tanto, dallo psicologo si va più spesso. In genere  la frequenza può variare da caso a caso … si parte da almeno una volta la settimana per tutte le settimane per un periodo di tempo che è difficilmente quantificabile.

 

Quali sono i vantaggi andando dallo psicologo? In seduta, cosa accade, quanto dura una seduta, quanto tempo ci vorrà? queste ed altre domande trovano spesso le solite risposte e cioè:  dipende.

Dipende da noi e dal terapeuta. Da noi perchè abbiamo i nostri tempi e le nostre resistenze; dal terapeuta perchè dipende dal tipo di scuola e dal suo stile. Insomma, le terapie non sono tutte uguali.

 

In merito al “cosa succede nelle sedute“: vale quanto detto sopra, si parla e il nostro ‘parlare’ viene o meno indirizzato dal terapeuta in funzione del suo modello di riferimento. Ci sono dei terapeuti che intervengono di tanto in tanto, altri che invece intervengono spesso. Alcune terapeuti potrebbero anche assegnare ‘compiti‘ da fare tra una seduta e un’altra  (letture, scrivere, sogni, etc)

 

Per ogni dubbio o perplessità, evitate di andare in internet o chiedere ad amici se prima non lo avete fatto con il vostro terapeuta. Non siate timidi, lo pagate anche per questo.

 

Capita spesso di vedere scritto: primo colloquio gratuito. Non sono d'accordo (salvo rari casi). La prima seduta è molto delicata e importante e a volte potrebbe durare di più (se il terapeuta ha tempo). Sin dal primo incontro si gettano le basi per la terapia che seguirà. Se valuto che il caso che abbiamo di fronte non è di nostra competenza, la prima seduta non si svolge, e, chiaramente, non si paga. Se invece la terapia comincia, la prima seduta vale come e forse più di quelle successive.

 

Al termine del primo colloquio il professionista e il paziente concordano l’eventuale prosecuzione del trattamento.

Il professionista potrà personalmente farsi carico dell’intervento o indicare al paziente il nominativo di un professionista sulla base delle specifiche problemaiche individuate, dell’indirizzo terapeutico e delle competenze professionali più adeguate. Potrà inoltre suggerire e discutere con il paziente la possibilità di intraprendere percorsi alternativi.

L’inizio di  un percorso terapeutico è l’incontro di due mondi differenti; si attiva un processo in cui si passa da uno stato di estraneità reciproca all’essere “compagni di viaggio”.

Essere estranei descrive la situazione in cui due persone non si conoscono: non sanno nulla dei propri pensieri, delle intenzioni che hanno l’una rispetto all’altra, del modo in cui considerano il loro entrare in relazione e del modo in cui intendono contribuire al rapporto che si sta creando (Carli, Paniccia, 2003).

È necessario, quindi, che gli estranei imparino a conoscersi e a comunicare tra loro, elaborando un linguaggio comune. Proprio a causa del fatto che la condizione iniziale è di non conoscenza, bisogna affrontare e superare il rischio che entrambi gli interlocutori si facciano condizionare da stereotipi o pregiudizi privi di fondamento: dato che non c’è ancora stato uno scambio comunicativo fonte di informazioni reciproche, il contatto con l’estraneo è il contatto con l’ignoto.

Una buona premessa per accedere ad un processo conoscitivo si identifica con il prendere atto, da parte di entrambi gli interlocutori, della reciproca diversità, la quale rappresenta un “punto di partenza per riconoscere l’estraneità dell’altro” (Carli, Paniccia, 2003, 80); ciò perché il riconoscere che l’altro è un’entità distinta così come lo siamo noi permette di realizzare uno scambio tra il suo e il nostro mondo.

Se non siamo in grado di riconoscere l’alterità dell’altro, non possiamo entrarci in relazione: l’unico tipo di rapporto non basato sull’alterità e sullo scambio è quello che si attua con il possesso, ossia con l’illusione di “possedere l’altro”, inglobandolo come estensione di sé, senza riconoscerne lo status di essere distinto, con le proprie caratteristiche e la sua individualità.

Riportando ciò nel setting terapeutico è importante, nel porre le fondamenta di un cammino psicoterapico, che sia il terapeuta che il cliente prendano le misure, imparando a conoscere e a farsi conoscere, ciascuno nell’ambito del proprio ruolo all’interno della relazione.

In base alla compatibilità tra cliente e terapeuta si creerà una relazione che funzionerà bene per un dato cliente in una certa situazione; grazie all’alleanza, ossia alla capacità, da parte dei due componenti della diade terapeutica, di collaborare in vista di un obiettivo comune concordato insieme, il percorso procede.

Per quanto riguarda l’efficacia del percorso terapeutico, l’instaurarsi di una soddisfacente relazione tra cliente e terapeuta rappresenta un elemento fondamentale; è importante che esista un buon grado di sintonia iniziale, che, però, non degeneri in un eccesso di iper-identificazione: deve essere sempre chiaro che si tratta del confronto tra due identità distinte.

La visione del mondo del terapeuta si riallaccia alla storia della sua vita; se è vero che le persone che condividono un retroterra affine possono, in principio, trovare più facilmente un’intesa, è anche vero che, a lungo termine, ciò potrebbe ostacolare un reale cambiamento terapeutico, congelando il rapporto terapeutico in una dinamica di rispecchiamento.

Le storie personali del cliente e del terapeuta influenzano la loro capacità di creare una solida alleanza terapeutica: entrambi sono portavoce di una propria visione del mondo ed entrambi apportano il loro patrimonio di convinzioni, valori, aspettative e bisogni (Giusti, Montanari, Iannazzo, 2004).

In questo quadro, la condizione ottimale sembra essere un background simile ma non troppo, in modo che l’empatia non ceda il posto ad una eccessiva uniformità di vedute; ciò potrebbe  porre le premesse per una terapia troppo statica, in cui la comprensione e l’affinità concorrono a creare una situazione stagnante, invece di contribuire alla crescita e di aiutare il cliente a sviluppare le proprie potenzialità evolutive.

Al terapeuta è richiesta la capacità di destreggiarsi in modo flessibile tra le polarità antitetiche della vicinanza e del distacco, dell’affinità e della differenza, in modo tale che la relazione terapeutica abbia dei sani confini; in altre parole, il ruolo terapeutico si identifica con il creare una distanza ottimale rispetto al cliente, che permetta di rispecchiare il cliente  e di essere “empatico, intuitivo, capace di mettersi dal punto di vista dell’altro” senza perdere di vista la propria diversità  (Lis, 1993, 18).

In sintesi, il terapeuta dovrebbe essere in grado di comprendere la visione del mondo del paziente e, contemporaneamente, di proporgli una differente esperienza di sé nella relazione terapeutica; in questo modo si origina una nuova visione del mondo e la terapia diviene strumento di effettivo cambiamento.

La premessa di fondo è che ciò che spinge ad intraprendere un percorso terapeutico non è tanto il desiderio di rileggere il passato, quanto piuttosto di superare il senso di insoddisfazione attuale per conseguire un futuro migliore. 

Cosa significa concretamente? Che il cambiamento è desiderato, ma anche temuto, perché implica il modificare le proprie abitudini e il modo di rappresentare la realtà utilizzato fino a quel momento.

Il terapeuta è  chiamato ad essere, per il cliente, strumento per contattare il diverso, il nuovo, che, una volta conosciuto, non fa più tanta paura; solo così la vita si apre a nuovi scenari e possibilità. 

 

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Autore: Dott. Maurizio Sgambati - Psicologo Psicoterapeuta. © Riproduzione vietata.